Emilio Salgari

La riconquista di Monpracem


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impedire che le tigri si portassero via gli spettatori.

      Migliaia e migliaia di persone, prementi, impazienti, avevano occupato tutte le gradinate, facendo un chiasso infernale.

      In una piattaforma, abbellita da tappeti e da festoni di seta verde, insegna del potere, stava il Sultano del Borneo S. A. Selim-Bargasci-Amparlang.

      Il signore del Borneo, come tutti i sultanelli delle isole Indomalesi, non era già un gigante e non aveva affatto un aspetto guerresco. Era un cosettino smilzo, color del pane bigio, cogli occhietti brillantissimi ed un po’ di barba al mento che cominciava già a brizzolarsi.

      Indossava una lunga tunica di seta verde ricamata in oro, e portava sul capo un turbante di dimensioni monumentali.

      Poteva tenersi per altro ben sicuro, poiché dietro di lui, altre ad un gran numero di malesi e dayachi, stavano ritti cento rajaputi indiani, sempre pronti ad un suo cenno a portare lo spavento nella capitale.

      Yanez salì una scala coperta da un ricco tappeto persiano, giunto laggiù chi sa in seguito a quali vicende, e si presentò al Sultano, toccandosi appena con un dito la tesa dell’elmo, come si conveniva al rappresentante di una nazione così potente, da mangiarsi tutto il sultanato in ventiquattro ore.

      – Siate il benvenuto alla mia corte! – gli disse il Sultano. – Il vostro arrivo mi era già stato annunciato.

      Dubitavo che vi fosse toccato qualche spiacevole accidente. Sapete bene che i mari nostri, per quanto io faccia, non sono mai sicuri.

      – Sono giunto col mio yacht, Altezza, – rispose Yanez – e la mia nave porta sempre dei buoni pezzi di cannone capaci di contrabbattere vantaggiosamente tutte le spingarde, i lilà ed i mirim dei pirati.

      – Sedetevi presso di me, milord, non si aspettava che voi per cominciare lo spettacolo.

      Se siete stato in India, ne avete veduti altri simili.

      – E molti, Altezza.

      – Ma io vi offrirò qualche cosa di più interessante: una battaglia di lanceri fra le tigri.

      Abbiamo fatto molte grosse battute tutta la settimana scorsa e siamo ben provvisti di animali.

      – Questi spettacoli sono sempre assai emozionanti e si vedono volentieri.

      – Volete che dia il segnale? Tutto è pronto. —

      Il Sultano alzò un braccio.

      Tosto si udirono tre squilli sonori di tromba, i quali ottennero dalla parte degli spettatori un profondissimo silenzio.

      Da un capannone costruito all’estremità del grandioso recinto si slanciò sull’arena un magnifico toro tutto nero, di forme vigorose, colla fronte ampia e le corna incurvate in avanti.

      Doveva essere una bestia selvaggia, presa da poco nel fondo di qualche fossa, poiché aveva ancora gli occhi iniettati di sangue per la lunga prigionìa.

      Appena fatta una corsa furiosa di quindici o venti passi, si arrestò di colpo fiutando l’aria, sferzandosi i fianchi colla coda e mandando dei sordi ed impressionanti muggiti.

      Il povero animale sentiva certamente il pericolo.

      Altri tre squilli echeggiarono e da un’altra capanna situata quasi sotto il palco del Sultano, si slanciò fuori una tigre, annunciandosi con un a-ou-ug che fece sussultare il toro.

      Non era una di quelle magnifiche tigri reali che si trovano solamente nel Bengala.

      Quelle che popolano le isole del mar della Sonda sono più basse di zampe, più tozze; ma non sono meno ardite delle altre.

      La belva, che doveva aver capito di che cosa si trattava, invece di muovere direttamente contro l’avversario che l’aspettava ben piantato sulle zampe e colla testa bassa, si accovacciò al suolo lanciando un secondo a-ou-ug non meno impressionante del primo.

      Urla feroci partivano dai dieci o quindicimila spettatori.

      – Paurosa!

      – Il toro ti guata!

      – Saltagli addosso e provati a mangiarlo, se sei capace. —

      La tigre riceveva filosoficamente le più atroci ingiurie e si guardava bene dall’assalire il poderoso avversario, il quale invece cominciava a dare segni d’impazienza.

      – Attento, milord – disse il Sultano cacciandosi fra i denti, neri come i chiodi di garofano, un miscuglio d’areca, di betel e di calce viva. – Lo spettacolo diventerà interessante.

      – Mi pare per altro che la tigre abbia poca premura di provare le corna del toro – rispose Yanez.

      – Al momento opportuno assalirà, ve lo dico io. Guardate! Guardate! —

      Non era la tigre che muoveva all’attacco bensì il toro, il quale pareva che fosse impaziente di finirla.

      Fece a corsa sfrenata due volte il giro del recinto, sollevando un nuvolone di polvere, poi si arrestò dietro la belva, obbligandola a cambiar fronte.

      Le grida e le invettive erano cessate. Tutti gli spettatori, in piedi sui banchi, assistevano all’impressionante lotta, senza quasi più respirare.

      Il toro s’incolleriva.

      Batté parecchie volte i larghi zoccoli, come per provocare uno scatto da parte dell’avversario, poi non avendo ottenuto alcun effetto, caricò all’impazzata colla testa quasi rasente al suolo.

      La tigre, sorpresa nell’agguato, spiccò quattro o cinque salti, poi con una magnifica volata piombò fra le corna dell’avversario, mordendogli ferocemente la testa e strappandogli le spalle.

      Il povero animale che perdeva sangue in gran copia, era partito a galoppo furioso, tentando di schiacciare la belva contro le palizzate del recinto.

      Un nuvolone di polvere li aveva avvolti, togliendoli agli occhi degli spettatori, i quali apparivano in preda ad un entusiasmo veramente delirante.

      Compì due volte il giro dell’aloun-aloun, poi si arrestò bruscamente sotto il palco reale e con una scossa irresistibile scagliò in aria l’avversario.

      Un grande urlo di spavento si alzò fra gli spettatori.

      La tigre non era più ricaduta al suolo, ma si teneva fortemente aggrappata ai bambù che si piegavano verso il palco, minacciando di scagliarsi addosso ai grandi dignitari del sultanato.

      L’attacco pareva quasi certo, poiché la bestia maligna aveva già posate le zampe anteriori sul palco, quando Yanez d’un balzo si alzò e si gettò dinanzi al Sultano.

      Impugnava le sue magnifiche pistole indiane. Rintronarono quattro spari e la belva, fulminata dall’infallibile bersagliere, stramazzò nell’arena, mandando un urlo spaventevole.

      Il toro, vedendola cadere le si era scagliato prontamente sopra, piantandole nel petto le sue aguzze corna. La sollevò di peso e la trascinò fra la polvere sfondandole il petto.

      Il Sultano, che era diventato grigiastro per lo spavento, ossia pallido, si era voltato verso Yanez, il quale teneva ancora in mano le pistole fumanti.

      – Milord, – gli disse con voce tremante – voi mi avete salvata la vita.

      – Non mi dovete nulla, Altezza, perché ho salvata anche la mia – rispose il portoghese.

      – Che polso fermo avete!

      – Ah, ba’! A venti passi colle mie pistole posso spengere delle candele.

      – Dovete essere anche un gran tiratore di carabina.

      – Certo, Altezza. Volete una prova dell’abilità degl’inglesi? Fatemi portare qui due fucili dai vostri rajaputi e preparatevi a gettare in aria una rupia.

      – A quale scopo?

      – Per bucarla al volo. —

      Il Sultano fece segno ad uno dei suoi segretari, e pochi istanti dopo il portoghese si trovava in possesso di due bellissime carabine di fabbrica indiana, colle canne abbronzate ed il calcio pesantissimo perché laminato in ferro.

      – Quando