Emilio Salgari

Le meraiglie del Duemila


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questo medoc, mio caro notaio; non se ne trova di simile nemmeno in Francia.»

      Magge entrava in quel momento, portando su un piatto d’argento un bel pasticcio dalla crosta dorata, che fumava ancora e che spandeva un profumo delizioso.

      «È attaccato il poney?» chiese il dottore.

      «Sì, padrone» rispose la cuoca.

      «Allora sbrighiamoci.»

      In pochi minuti fecero sparire il pudding, vuotarono una tazza di tè, poi scesero nel cortile, dove li attendeva un carrozzino tirato da un piccolo cavallo bianco che sembrava impaziente di partire.

      «Andiamo» disse il dottore, raccogliendo le briglie ed impugnando la frusta. «Fra mezz’ora saremo allo scoglio di Retz.»

      Era una splendida giornata d’autunno, rinfrescata da una brezza vivificante impregnata di salsedine, che soffiava dal settentrione.

      L’Oceano Atlantico era in perfetta calma, quantunque il flusso avventasse fra le scogliere che proteggevano le spiagge dalle ondate le quali s’infrangevano con mille boati, balzando e rimbalzando. Delle barche pescherecce colle loro belle vele dipinte di giallo e di rosso a strisce e macchie nere, che davano loro l’apparenza di gigantesche farfalle, spiccavano vivamente sull’azzurro cupo delle acque, spingendosi lentamente al largo, mentre in alto stormi di grossi uccelli marini, di gabbiani e di fregate volteggiavano capricciosamente.

      Uscito dalla cinta, il piccolo cavallo aveva preso una via abbastanza larga che costeggiava l’oceano, slanciandosi ad un trotto rapidissimo, senza che il dottore avesse avuto bisogno di eccitarlo colla frusta.

      Brandok era ridiventato taciturno, come se lo spleen lo avesse ripreso; il notaio pure non parlava, tutto occupato a fumare la sua pipa che eruttava un fumo denso come la ciminiera d’un battello a vapore.

      Il dottore badava che il poney filasse diritto e non mettesse le zampe in qualche crepaccio o s’avvicinasse troppo alla scogliera, che in quel luogo cadeva a picco sull’oceano.

      Dei ragazzi di quando in quando sbucavano dalle macchie di pini e di abeti che si prolungavano verso l’interno dell’isola e rincorrevano per qualche tratto il carrozzino, gridando a squarciagola:

      «Buona passeggiata, dottore!».

      Il paesaggio variava rapidamente, accennando a diventare più selvaggio, man mano che s’accostavano alla spiaggia orientale dell’isola. Non si vedevano più casette né abitanti. Soltanto le macchie dei pini e degli abeti diventavano più numerose e più folte e le scogliere più alte e più ripide; le onde dell’Oceano Atlantico vi s’infrangevano con una violenza tale, che pareva si sparassero delle cannonate in fondo ai piccoli fiordi scavati dall’eterna azione delle acque.

      Era un rombo continuo, sempre più fragoroso, che impediva ai tre amici di parlare.

      La strada era finita, però il poney non cessava di trottare, senza manifestare alcuna fatica e faceva traballare maledettamente la carrozzella.

      Ad un tratto si fermò dinanzi ad una parete rocciosa, dietro la quale si udiva l’oceano muggire furiosamente.

      «Siamo giunti» disse il dottore, balzando a terra. «Ecco lo scoglio di Retz.»

      «E lassù hai preparato la nostra tomba?» chiese Brandok.

      «Ed in una posizione bellissima» rispose il dottore. «Il muggito delle onde ci canterà la ninna nanna, senza tregua, fino al giorno della nostra risurrezione.»

      «Se torneremo in vita.»

      «Dubiti ancora, James?»

      «Non prenderti nessun pensiero per i miei dubbi. Ti ho detto che la vita ormai è diventata troppo pesante per me, quindi poco m’importerebbe anche se non mi risvegliassi mai più. Mostrami dunque la nostra ultima dimora.»

      «Non l’ultima.»

      «Come vuoi.»

      «Vieni, James.»

      Legò il poney al tronco d’una betulla, poi prese un piccolo sentiero scavato nella viva roccia che s’innalzava a zigzag. La rupe, chiamata impropriamente lo scoglio di Retz, era di mole enorme, alta un centinaio di metri, e formava il capo più alto dell’isola, verso oriente.

      La sua fronte massiccia, tagliata a picco, opponeva un formidabile ostacolo all’irrompere delle onde dell’Atlantico, quindi non vi era pericolo che cedesse, nemmeno dopo cent’anni.

      Giunti sulla cima, che era piatta, anziché terminare a punta, Brandok scorse una muraglia, della circonferenza di quattro o cinque metri, che era sormontata da una cupola di cristallo munita di un parafulmine altissimo.

      «È quella la nostra ultima dimora?» chiese.

      «Sì» rispose il dottore.

      «Quando l’hai fatta costruire?»

      «Lo scorso anno.»

      «Lo sanno gli abitanti della borgata?»

      «No, perché ho fatto venire gli operai ed i vetri da Nuova York.»

      «E la rispetteranno?»

      «Lo scoglio è mio: l’ho acquistato dal comune, con contratto regolare, ed il notaio ha l’ordine di far distruggere il sentiero che conduce quassù e di cingere la scogliera con una cancellata di ferro altissima.»

      «Che ho già ordinata» disse il signor Max. «Nessuno verrà a disturbarvi.»

      «Entriamo» disse il dottore.

      Con una chiave a segreto aprì una porticina di ferro tanto bassa che non si poteva entrarvi che carponi, ed i tre uomini si introdussero nel piccolo edificio.

      L’interno era tutto coperto da vetri molto spessi incastrati in robuste cerniere di rame, e di notevole non aveva che un letto molto largo e basso, con coperte piuttosto pesanti ed un piccolo scaffale su cui stavano delle bottiglie e delle siringhe.

      «Ecco la mia dimora, o meglio la nostra» disse Toby, rivolgendosi all’amico. «Ti rincresce?»

      «Niente affatto» rispose il giovane, che guardava l’oceano attraverso la cupola di vetro. «Spero che nessuno verrà a disturbarci prima del giorno che avremo fissato nel nostro testamento. Che piacere udire il fragore delle onde! Ecco una bella compagnia.»

      «Ritengo inutile che tu ti provveda di un letto. Questo è più che sufficiente per tutti e due.»

      «Ed il sotterraneo dove hai depositato i tuoi valori?»

      Il dottore si curvò, levò una piastra di ferro che si trovava ai piedi del letto e mostrò una stretta gradinata scavata nella viva roccia, che doveva mettere in qualche cella sotterranea.

      «La cassaforte si trova là dentro» disse.

      «Vi rinchiuderò anche i miei valori. Domani andrò a Nuova York a cambiare la mia carta e le mie azioni ferroviarie in oro. Ne avremo abbastanza al nostro risveglio. A quando il nostro sonno?»

      «Fra otto giorni; appena avranno chiusa la base della roccia colla cancellata.»

      «Una domanda ancora, mio caro dottore. Se si dimenticassero di risvegliarci? Sai che io non ho nessun parente.»

      «Io ho una sorella che ha sette figli» rispose Toby. «Spero che fra cent’anni esisterà ancora qualche pronipote per venire a riaprirci gli occhi, o per impossessarsi del nostro tesoro nel caso che noi fossimo proprio morti; e poi vi è il notaio ed ho anche depositato un atto presso il sindaco. Non temere James: qualcuno verrà a raccogliere la nostra eredità.»

      «I miei successori non si dimenticheranno di voi, siatene certi» disse il signor Max.

      «Hai nessun’altra obiezione da fare, James?» chiese Toby.

      «No» rispose il giovane.

      «Sei risoluto a tentare l’esperimento?»

      «Hai la mia parola.»

      «Allora, torniamo a casa mia a fare gli ultimi preparativi.»

      Uscirono, chiusero la porticina, scesero lo scoglio e salirono sulla carrozzella