la carità fraterna, che è un santo bisogno del cuore: rinunziamo alle ambizioni, ma ci dedichiamo allo studio, che affina l'intelligenza ed è poi il naturale ufficio dello spirito.
– Lo sappiamo, padre, e Le domandiamo di poterci dedicare con Lei a questo genere di vita.
– Ma badi; – osservò il priore. – È un genere di vita più alto, o più umile, secondo si guarda, ma certamente diverso da quello che si fa generalmente e a cui c'indirizza la nostra educazione e l'ardore delle nostre passioni. Perciò, a non aver pentimenti, è necessaria una vocazione sincera, e riconosciuta tale, mercè il confronto, che può farsi solamente quando si è vissuto a lungo tra gli uomini. Non basta un desiderio onesto di pace, o una poetica aspirazione alle squisite compiacenze della solitudine; è necessario che il desiderio sia profondo e l'aspirazione provata nei disinganni della vita. Che il mondo offra amarezze e dolori in molto maggior numero e quantità dei piaceri e delle consolazioni, è cosa nota oramai, e può esser creduta anche, sulla fede dei vecchi, da coloro che non ne hanno fatta la triste esperienza in sè medesimi. Ma altro è l'accettare per vera una massima, altro il conformarvi tutta quanta la vita. Si conosce il bene e si loda, ma ci si attiene al peggio, o ci si torna quando fa comodo. Da questo rifugio, invece, non si ritorna più indietro. Donde la conseguenza che ci si debba venire… (mi scusi, ma la franchezza è necessaria)… che ci si debba venire ad una età più matura, che non sia, per esempio, la sua.
– Ho ventidue anni; – disse arditamente l'arcangelo.
– Sia pure, ma non è molto. E poi, Ella non ha neanche l'ombra dei baffi.
– Scusi, che gliene importa a lei? —
Il priore sorrise, a quella involontaria scappata del biondino.
– A me, nulla; – rispose. – Ma non vorrei aver l'aria di accalappiar minorenni.
– Son solo; non ho che mio zio; – ribattè il giovine. – E mio zio, qui presente, si fa frate con me.
– Davvero? – chiese il priore, volgendosi allo zio.
– Davvero; – rispose questi, facendo il gesto dello et cum spiritu tuo.
Il padre Anacleto ebbe un istante di raccoglimento; indi alzò la fronte, come un uomo che ha preso un partito e si dispone a parlare. Ma il pensiero del nostro personaggio doveva essere difficile ad esprimersi, anche per un uomo della sua autorità, perchè egli, dopo aver sollevata la fronte, stette parecchi secondi immobile, con gli occhi fissi sul volto del giovane cherubino. Questi arrossì fino alla radice dei capegli, ma non chinò altrimenti i suoi.
– Mi perdonano la franchezza? – incominciò finalmente il priore.
– Dica liberamente.
– Ma badino, – soggiunse, – voglio essere schietto, anche a risico di parere… scortese.
– Non le riuscirà; – disse il cherubino, che non aveva ancora ombra di baffi, ma dimostrava già di aver molto giudizio.
– Grazie; – rispose il priore, cascando e sapendo di cascare. – Volevo dire che dubiterò; e il dubbio è sempre scortese; ne conviene?
– Secondo la maniera di esprimerlo; – ripigliò il cherubino.
– Orbene, – disse il priore, stringendosi nelle spalle, – prendiamo la forma più mite. Qui vedo due cose, egualmente temibili. O si tratta d'uno scherzo… —
A queste parole, il cherubino scattò sulla sedia.
– Non c'è scherzo, qui; – interruppe egli vivacemente; – La prego a crederlo; lo giuro sul mio onore. M'ingannerò… c'inganneremo, – soggiunse, ravvedendosi tosto, – ma è un nostro desiderio sincero di viver qui, se Ella non ce ne reputa indegni. Siamo gente per bene, pronti a sopportare la nostra parte di spese, a metter fuori quanto occorre, e più ancora, per vivere in questa comunità di San Bruno. L'idea è superiore alla mia età, dice Lei. Che cosa ne sa? Scusi, veh! Non sono ancora sotto la sua tutela. Riconoscerò domani la sua autorità, la sua giurisdizione. Per oggi almeno mi lasci dire liberamente quello che penso. Che cosa ne sa? Metta che io sia vissuto nel mondo quanto occorre per capire che esso non val nulla, che è bugiardo, sciocco e noioso. Non basta, forse, per venire a rifugio quassù?
– Eh, non basterebbe; – disse il priore, crollando la testa e sorridendo. – Ma lasciamola lì. Io le aveva accennato un mio dubbio. Le è dispiaciuto e non voglio tornarci su. L'ardore che Ella ha messo a ribatterlo, mi dice chiaro che non debbo ripeterlo, neanche spiegandolo.
– Dovrebbe ritirarlo senz'altro; – replicò il cherubino. – Per nessuna cosa al mondo io mi farei lecito uno scherzo di questa fatta, e sopratutto con Lei!.. —
Non era niente più d'un complimento; ma il tono con cui fu detto turbò lo spirito del padre Anacleto.
– Rimane l'altra parte del dilemma; – diss'egli, mutando registro. – Il suo sarà dunque un desiderio sincero. Ella lo afferma ed io lo credo. Ma anche un desiderio sincero può essere… di poco durata.
– Durerà, creda anche questo, durerà.
– Oggi le pare, ma chi ci assicura del domani? Io, veda, sono obbligato a distinguere, a considerare tra i possibili, se non a dirittura tra i probabili, che il suo desiderio, vivissimo oggi, si muti un giorno in avversione. E allora? Il voto pronunziato adesso, il patto conchiuso tra noi, non rincrescerebbe a Lei solamente, e farebbe anche torto alla mia previdenza, che si sarebbe mostrata assai misera. A farla breve, sono il priore di nove (e saranno presto quattordici), tutta gente posata, che vive in una quiete esemplare. Ma Ella sa come si ottenga lo stato di quiete negli animi, materia assai più delicata e gelosa che non siano le bilance dell'oro, e come un nulla possa turbare quel felice equilibrio. Se un giorno – osservò acutamente il padre Anacleto, fissando i suoi occhi scrutatori in viso al cherubino, – se un giorno dovessero dirmi: "Signor priore, siete andato un po' leggermente nella faccenda di quella ammissione," crede Lei che non ne sarebbe turbata la nostra bella armonia, unica guarentigia di pace, unico bene che renda la nostra vita preferibile a quella del mondo? – Un'aria di profonda mestizia si dipinse sul volto del giovine. Pareva uno di quegli angeli del buon tempo antico, che, tornati al paradiso, trovarono la spiacevole novità della porta chiusa.
– Orvia, – ripigliò il padre Anacleto, dolente di aver fatto pena al suo giovine interlocutore, – non ci fermiamo a guardare tutti i casi possibili, che saranno ugualmente improbabili. Ella e suo zio mi aiutino a mettere in pace la mia coscienza; accettino di entrare come ospiti, per ora, e questa ospitalità la chiamino pure un noviziato. Tra un anno… Non le piace? Diciamo adunque fra sei mesi. Neanche? Diciamo allora fra tre, riparleremo della loro vocazione. – S'intende, – osservò il priore, – che anche dopo accettati nella famiglia, il vincolo non sarebbe indissolubile. Ma c'è sempre una parola d'onore che impegna; si è ammessi per questa parola, e la parola, pei gentiluomini, è legge. Se così non fosse, mi capiranno, il convento di San Bruno si tramuterebbe facilmente in albergo, ed io ne sarei l'albergatore, o il direttore pro tempore. Ora, nè il mio carattere concentrato, nè le mie abitudini studiose, mi consentirebbero di esercitare questo ufficio.
– Ha ragione; ma noi Le giuriamo fin d'ora…
– No, non giurino, per carità. Io non accetto il giuramento, non l'ho udito. Rimangano qui, li avremo in qualità di novizi. Finora non se n'erano accettati; ma sarà una eccezione alla regola. E prima di tutto, siccome qui ognuno si dedica a qualche lavoro, vediamo un po' che cosa sanno far Loro?
– Io… veramente… – balbettò lo zio – qualche cognizione di agronomia…
– Troverà da applicar poco; – riprese il padre; – qui non abbiamo che l'orto e il frutteto. I campi mancano affatto; i boschi sono stati decimati prima che noi si comperasse il convento. Ma infine, quel poco che c'è offrirà a Lei materia di studio, e saremo lieti di avere un agronomo in famiglia, come già abbiamo il botanico. E Lei?
– Quasi nulla; – rispose il cherubino arrossendo. – Un po' di canto… il pianoforte… Frivolezze, Ella dice bene;