Laura Merlin

Morrigan


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imprecò. ‹‹La Dea ti vuole, il tuo destino è già stato scritto. Non puoi cercare di cambiare il corso degli eventi. Salvaci!››.

      Pronunciò queste parole con intensità e violenza tali che sembrarono lame taglienti. Mi colpì nel profondo dell’anima e capii che forse non era solo un semplice brutto sogno: era qualcosa di reale che avrebbe cambiato in maniera drastica la mia vita.

      Avrei voluto supplicarla di restare e spiegarmi meglio cosa stava succedendo, ma non appena provai ad aprire bocca per parlare, dietro la ragazza si materializzò una sagoma.

      Era una figura annebbiata, potevo vederne solo i contorni sfocati. L’unica cosa che riuscivo a focalizzare erano i suoi occhi, due intensi occhi neri come la notte che mi paralizzarono l’intero corpo.

      Non volevo stare lì un minuto di più, dovevo uscire dal sogno a tutti i costi. Solo che ero bloccata in quella dimensione.

      Urlai a squarciagola e l’ombra di quella figura sconosciuta si fece sempre più vicina. Una risata profonda mi risuonò nelle orecchie. ‹‹Sarai mia, Sofia, non puoi sfuggirmi››, tuonò l’ombra.

      â€¹â€¹Stai lontano da me››, gridai ‹‹voglio andarmene da quì››, e all’improvviso spalancai gli occhi e sobbalzai nel letto.

      Ero sudata, la fronte imperlata di sudore. Mi guardai subito attorno. Per fortuna ero nella mia stanza. Chiusi gli occhi e le immagini di quell’incubo mi passarono per la testa, una a una, come il riassunto veloce di un film.

      Un gelido alito d’aria mi sfiorò la pelle ancora umida.

      Qualcuno mi stava osservando. Avevo la netta sensazione di sentirmi di nuovo quegli occhi neri puntati addosso, ma non riuscivo a vedere nessuno.

      Il cuore cominciò a battere a mille.

      Sentii dei passi sempre più vicini e iniziai a ripetermi che non poteva essere vero, che il sogno non poteva avverarsi.

      Qualcosa saltò nel letto. Soffocai uno strillo con le mani e portai le ginocchia al petto di scatto.

      â€¹â€¹Ade! Mi hai fatto morire››, dissi alla mia palla di pelo color miele. Mi misi a coccolare il mio cane che nel frattempo si era raggomitolato vicino a me.

      Decisi di concentrarmi su di lui, accarezzandolo per rilassarmi. Avrei valutato la mattina seguente se preoccuparmi o meno dell’incubo. Nel frattempo avrei dovuto provare a dormire ancora un po’, però la paura di ritornare in quell’orribile fantasia era troppa.

      Di una cosa ero certa: le brutte sensazioni che provavo non mi avrebbero lasciata, anzi, sarei stata pronta a scommettere che sarebbero aumentate col passare del tempo.

      2

      LA VECCHINA

Senzanome

      Ero rimasta sveglia quasi tutta la notte. Il sogno della sera prima mi aveva lasciato addosso una strana sensazione. Avevo come il terrore che tutto ciò potesse essere vero e non solo frutto della mia mente contorta.

      Mi alzai e mi sedetti sul bordo del letto. Respirai a fondo tre, quattro volte, finché non riuscii a sentirmi un po’ più tranquilla.

      Trascinai i piedi fino all’armadio, presi un paio di pantaloni corti e neri e la prima canotta che mi venne tra le mani.

      Mi guardai allo specchio. Ero pallida, due occhiaie scure indicavano il fatto che avessi riposato molto male e i capelli non erano da meno.

      Per la prima volta dimostravo qualche anno in più. Ero abituata a sentirmi dire che sembravo più piccola: mai nessuno mi dava diciotto anni. Dopotutto avevano ragione. Nemmeno io mi sarei data la mia età, ma quella mattina dimostravo davvero i miei anni.

      Mi passai una mano sul viso come se con quel gesto avessi potuto cancellare tutti i pensieri.

      Poi presi la piastra, i trucchi e cominciai il restauro.

      â€¹â€¹A noi due, sconosciuta››, minacciai il mio riflesso con la spazzola. ‹‹Vedremo chi avrà la meglio››.

      Alla fine vinsi io. I capelli tornarono lisci e li raccolsi in una coda di cavallo, il fondotinta coprì le occhiaie e la matita nera diede un tocco di colore agli occhi stanchi.

      In realtà il trucco sarebbe stato inutile dato che dovevo solo andare a fare jogging al parco prima di mettermi a fare qualcosa, ma quella mattina ne sentivo proprio il bisogno.

      E sentivo anche il bisogno di leggere i tarocchi.

      Era un’abitudine. Ogni volta che avevo un dubbio o un’incertezza prendevo le carte per vedere cosa mi avrebbero consigliato di fare.

      In un certo senso mi facevano sentire più tranquilla.

      Attraversai la stanza con due enormi falcate, presi il mazzo di carte dal cassetto vicino al letto e mi sedetti a terra a gambe incrociate.

      Mi concentrai e mescolai le carte con cura cercando di svuotare la mente. Spezzai il mazzo, lo ricomposi e sospirai.

      Poi a mezza voce dissi: ‹‹Come posso capire il sogno di ieri sera? Che succederà adesso?››.

      Era una domanda un po’ assurda da fare: di solito chiedevo come mi dovevo comportare, se dovevo fare una determinata cosa, oppure domandavo dei consigli riguardo a un lavoro o a un’idea. Non volevo e non avrei mai usato i tarocchi per cercare di leggere il futuro. Andava contro la mia convinzione che i veri fautori del proprio destino siamo noi stessi e nessuno può sapere per certo cosa accadrà domani.

      Quella mattina, però, la domanda fu spontanea. Tirai fuori tre carte dal mazzo e le poggiai sopra il pavimento, una accanto all’altra.

      Girai la prima come se stessi leggendo un libro, poi la seconda e infine la terza.

      Sgranai gli occhi e rimasi a fissarle trattenendo il respiro.

      Tre arcani maggiori!

      Tre carte di un certo peso poiché sono quelle con più influenza magica.

      Il matto, arcano numero zero.

      La morte, tredicesimo arcano.

      La torre, sedicesimo arcano.

      In poche parole significavano un cambiamento inaspettato nella vita, una nuova strada da prendere.

      Questo non mi rendeva per niente tranquilla. Raccolsi le carte e notai che mi tremavano leggermente le mani.

      L’ultima cosa che avrei voluto in quel momento era un cambiamento drastico nella vita. Mi andava bene così, ordinaria, regolare, senza troppi colpi di scena.

      Ne avevo già avuti abbastanza con un ragazzo, Michael.

      Eravamo usciti insieme qualche volta. Mi ero affezionata ai suoi occhi color nocciola, simili a quelli di un cerbiatto smarrito, e ai suoi capelli neri e morbidi. Aveva l’aria da ragazzino e insieme ne facevamo di cotte e di crude. Stavo bene con lui, ma dopo qualche tempo mi accorsi che quello che provavo era solo una forte amicizia e niente più.

      Decisi così di troncare la storia sperando che prima o poi avrebbe capito la mia decisione.

      Mi sbagliavo di grosso!

      Lui mi amava ed era quell’amore folle che ti fa fare pazzie. Quello che ti fa credere che per sempre non sia solo un’illusione, ma una cosa reale, possibile.

      Però è anche quello che nel momento in cui ti spezza le ali ti ritrovi a precipitare giù, sempre più giù, nel cuore degli inferi.

      E fu quello che provò lui.

      L’ossessione