Morenz Patricia

Per Sempre È Tanto Tempo


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      «Dovresti, Kevin è cintura nera.»

      «Davvero?» si sorprende.

      «No, ma ha una cintura di qualche colore e si sta impegnando per quella nera, quindi fai attenzione.»

      Chiacchieriamo ancora un po’ finché chiede il permesso a mio padre di portarmi a prendere un gelato. Kevin vuole intrufolarsi, ma per fortuna mia zia interviene rendendosi conto che vogliamo stare un po’ da soli.

      Prendo il mio cappotto, non so a che ora torneremo e cammino con Jake fino a casa sua; lui mi dice che Scott ci porterà dove vogliamo. Dopo gli auguri dei suoi genitori, saliamo sull’auto di Scott e immediatamente mi accorgo della chitarra sul sedile anteriore e sono curiosa.

      «Bene … In questa bella serata sono stato assunto come vostro autista» dice Scott cerimonioso, «vi porterò ovunque desideriate, la prima destinazione è stata già decisa, quindi mettetevi le cinture perché andiamo là.»

      Jake si siede dietro con me e la chitarra dalla parte del passeggero. Scott accende lo stereo e canta senza nessun ritmo, cambiando le parole. Jake mi sembra un po’ nervoso.

      «Dove andiamo?» chiedo.

      «Beh … ti darò il tuo vero regalo.»

      Attraversiamo il Ponte di Brooklyn verso Manhattan e sono doppiamente curiosa.

      «La chitarra ha qualcosa a che vedere con questo?»

      «Un po’ di pazienza, principessa» mi interrompe Scott.

      Quando arriviamo a Central Park, non so come andrà a finire. Cosa ci facciamo qui?

      «Bene, siamo arrivati» conferma Scott. «Jake hai un’ora, non voglio che si faccia troppo tardi per riportare la principessa al suo castello.»

      Jake annuisce mentre apre la sua portiera e la tiene aperta per lasciarmi scendere, prende la chitarra dal posto davanti, se la appoggia su una spalla e chiude la porta.

      «Andiamo?» mi offre il braccio e io mi appoggio.

      «Ma … dove?»

      «A trovare un posto tranquillo dove posso cantare per te»

      Mi fermo di colpo, lasciando il suo braccio. Anche lui si ferma e mi guarda.

      «Dai, andiamo» mi incoraggia e continuo a camminare senza dire niente.

      Troviamo un posto tranquillo e ci sediamo sopra una coperta che era nascosta dentro la custodia della chitarra. Fa molto freddo, ma non vorrei essere da nessun altra parte.

      «Io … voglio regalarti una canzone, la mia prima canzone originale. La prima di molte, spero» comincia ad imbracciare la chitarra mentre io osservo incantata ogni suo movimento.

      «Davvero hai scritto una canzone per me?»

      «Ehi, non ti emozionare troppo. In realtà è pessima, ma è tutto quello che ho per ora.»

      «È bella» dico, mentre alza la testa dalle corde.

      «Non l’ho ancora cantata» sorride.

      «So che sarà bella perché l’hai scritta per me» e qui arrossisce di nuovo, è quasi impercettibile, ma io conosco molto bene la tonalità della sua pelle e noto il leggero cambiamento.

      «Bene, vado.»

      Appena inizia riconosco gli accordi che aveva suonato nella casa sull’albero mentre io scrivevo, cercava di trovare un suono da quando gli avevo chiesto di scrivere qualcosa per me. Questo mi riempie il cuore di un sentimento sconosciuto, ma caldo, come una coperta fatta dalla nonna.

      Mentre ascolto la sua voce mi viene la pelle d’oca. Jake canta con gli occhi chiusi, dandomi la possibilità di osservare ogni dettaglio, le sue labbra che si muovono, come le sue parole accarezzano l’aria e arrivano alle mie orecchie.

      Non è una canzone pretenziosa, parla di me che chiedo a lui di scrivermi una canzone e di lui che esprime il sentimento di non volersi separare da me un’altra volta. È una canzone triste, ma nonostante questo mi sento felice che lui voglia restare al mio fianco come dice la canzone, anche solo come amico.

      L’ultima nota resta sospesa nell’aria, mentre lui apre gli occhi timoroso della mia risposta. Riesco a malapena a trattenere le lacrime, ma appena vedo i suoi occhi non ce la faccio più e mi butto tra le sue braccia, piangendo, la chitarra tra noi due.

      «Mi piace molto» mi stacco da lui e lo guardo negli occhi, asciugandomi le lacrime. Lui è senza parole, ma alla fine sorride.

      «Allora ne è valsa la pena» afferma, ritrovando la voce.

      «La canteresti di nuovo?»

      «Di nuovo?»

      «Sì … ma aspetta» cerco nella mia borsetta il cellulare che papà mi ha appena regalato, fa delle belle foto e mi viene in mente un’idea. «Non ti da fastidio se ti registro, o sì?»

      Jake sembra in imbarazzo vedendo le mie intenzioni, ma sa che non può dirmi di no. Canta di nuovo mentre io tengo in mano il telefono rivolto verso di lui. Le note e la sua voce mi avvolgono ancora e desidero solo che la telecamera possa captare anche le emozioni che fluttuano intorno a noi.

      Avevo ascoltato la mia canzone fino a tardi, la canzone che Jake aveva scritto per me. Dopo che Scott ci riaccompagnò quel giorno, in realtà non parlammo molto, soprattutto ci furono sguardi e sorrisi di complicità.

      Il giorno seguente andai a fare spese con mia zia, dato che tutti i miei vestiti mi servivano poco a New York; la temperatura sarebbe scesa ancora di più e non ero attrezzata. Non pensavo di chiedere ad Elena di accompagnarmi. Comprai varie cose, credo che mi entusiasmai troppo, ma sentivo la necessità di vedermi … bella. Sì, era così, volevo vedermi bella. Ovvio, questo non aveva niente a che fare con nessun ragazzo, fu ciò che risposi a mia zia quando me lo chiese, ma lei mi rivolse un sorriso del tipo sì-certo-come-no, che mi confuse.

      La odiai davvero quando dovette andarsene, mi ricordava tanto mia madre, ma dovevo ricordarmi che non lo era e che aveva un’altra vita, purtroppo lontana da me. Rimasi giù di morale per giorni. Jake tentava di rallegrarmi, cantava per me e a volte riusciva a strapparmi un sorriso. Ricordai che qui c’era ancora qualcosa per cui valeva la pena restare: Lui.

      Elena era sempre più … grossa. E non era per cattiveria ma in fondo ero contenta. Forse sì, era per cattiveria. Venni a sapere che il mio nuovo fratello/sorella sarebbe nato in aprile. Avevo ancora alcuni mesi per terminare il mio primo romanzo senza essere disturbata dal pianto di un neonato. Inoltre decisi di dare una mano in casa, non per lei, ma per non sentire mio padre che me lo ricordava e anche perché così sentivo che non mi regalavano niente, che in realtà mi guadagnavo vitto e alloggio.

      Un giorno torno da scuola, non vado a casa di Jake perché mi tocca fare le pulizie, entro e non vedo nessuno, lascio il mio zaino in salotto e mi dirigo in cucina. Ed è quando la sento parlare al telefono nel patio. Davvero non sono pettegola, ma mi sembra di sentirla piangere così presto maggiore attenzione.

      «L’ho già fatto, mamma» sembra stia parlando con sua madre. «Sai che io la capisco più di chiunque altro per quello che è successo con papà, eppure non so come avvicinarmi a lei senza farmi odiare.»

      Un momento, forse parla di me?

      «Sì, mamma, è una situazione difficile. Charles sta male, lei sta male e anch’io. Nessuno può vivere tranquillo in una casa così.»

      Per un attimo sono contenta di sapere che anche lei sta male. Non ha il diritto di mostrare la sua felicità quando tutto in questa casa è marcio.

      «Lo so, avrò pazienza. Vorrei solo che le cose migliorassero prima dell’arrivo del bambino.»

      All’improvviso, non so perché, mi sento in colpa. Ma rifiuto questo sentimento, io non sono colpevole di niente, l’intrusa qui è lei. La ascolto mentre saluta, e corro in salotto a prendere