Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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era tutto.

      «E adesso, in che cosa posso servirla?» chiese, con una semplicità così spoglia, da dar l’impressione, che rasentasse l’ironia.

      Evidentemente, non poteva servirlo in nulla! De Vincenzi ebbe l’impressione di aver proprio perduto il tempo, per quanto quella storia — un po’ comune, se vogliamo, e un po’ troppo romanzo per giovanette — lo avesse interessato, tanto l’accento con cui era stata narrata era sinceramente sereno e placido.

      Più che rassegnato, estraneo.

      Un ragazzo indubbiamente intelligente. Si vedeva ch’era di buona razza. Una duchessa di Noailles! E suo padre un pittore. Molto ingegno e poca fortuna. «Come me!» aveva esclamato, senza volerlo.

      Era vero, del resto.

      Ebbene, che altro c’era da fare? De Vincenzi doveva alzarsi, ringraziare, scusarsi e andarsene.

      «Mi perdoni d’averla disturbata. Ho interrogato lei come tutti gli altri inquilini della casa. La notte scorsa è stato commesso un delitto qui dentro…»

      Il giovane trasalì.

      «Un delitto?» chiese.

      «Già. È stato ucciso un uomo. Il banchiere Garlini. Lo conosceva?»

      «No, davvero!» rispose, ma il commissario sentì che la voce aveva avuto un piccolo fremito, una esitazione.

      Allora, aggiunse, fissandolo:

      «È stato ucciso in casa di Giannetto Aurigi.»

      Questa volta il giovane ebbe un sobbalzo. Così violento ed improvviso, che la tavola a cui si appoggiava ne tremò. E impallidì. Bianco di cera, si fece. E con quei suoi lineamenti sottili, aristocratici, il pallore gli diede subito l’aspetto di un ammalato.

      «Conosce il signor Aurigi?»

      «No,» mormorò.

      Mentiva. Era tanto evidente che mentiva, che lui stesso ebbe paura della propria menzogna e s’affrettò a balbettare:

      «Voglio dire… Lo conosco di nome… l’ho incontrato qualche volta per le scale…»

      «Dove si trovava, la notte scorsa, lei?» chiese freddamente De Vincenzi.

      L’altro lo guardò meravigliato, non comprendendo.

      «Come dice?»

      «Dico, dove si trovava la notte scorsa. Dalla mezzanotte all’una.»

      «Ma qui… In questa camera. Oh! dove voleva che mi trovassi?»

      «E non ha sentito nulla?»

      «Nulla!»

      «Dormiva?»

      «Ma no! Forse, scrivevo. Forse, leggevo.»

      «E nessuno che possa provare questo suo alibi?»

      «Alibi?… Perché dice alibi?»

      De Vincenzi sorrise. Infatti, aveva corso un po’ troppo! Certo, quel ragazzo si era turbato al nome di Giannetto Aurigi, ma che cosa significava? Si poteva supporre e credere che soltanto per questo fosse stato lui ad uccidere?

      Qualcosa doveva esserci sotto; ma pensare che quel ragazzo avesse ucciso Garlini gli sembrava enorme! E perché poi? È vero che dal pacco mancavano ventimila lire: «Li ho contati davanti a lui, per dargliele», aveva detto il cassiere. Ma quello lì non era tipo da delitto volgare, per furto.

      A meno che… e De Vincenzi guardò la fotografia sul tavolo: una donna!

      «Bene! Ne parleremo ancora. Tornerò da lei o la manderò a chiamare.»

      E uscì in fretta.

      Il giovane rimase lungamente a guardare la porta per la quale il commissario se n’era andato.

      Poi mormorò:

      «In casa di Aurigi!»

      Fissò la fotografia e tutto il volto gli s’illuminò di tenerezza e di terrore.

      R

      De Vincenzi scese in fretta al secondo piano.

      Suonò alla porta di Aurigi, che adesso era chiusa, e dovette aspettare qualche minuto, prima che Cruni gli aprisse. Il brigadiere, quando comparve, era ancora assonnato.

      Il commissario entrò di nuovo in quella sala, che oramai conosceva minutamente, tanto ogni particolare di essa gli si era impresso nel cervello.

      Aurigi, ancora in frak, avvolto nella pelliccia, dormiva, sfinito, disfatto, sul divano.

      «Ha dormito sempre?» domandò a Cruni.

      «Così, come lo vede. In certi momenti credevo che fosse morto… Anche lui! In altri, si agitava, smaniava, pronunciava frasi mozze… Senza senso…»

      «Le hai scritte?» chiese il commissario, quasi macchinalmente del resto, perché le immaginava le frasi, che il dormiente avrebbe potuto pronunziare.

      «Sono lì.»

      E il brigadiere indicò il tavolo, sul quale De Vincenzi vide un foglio pieno di note. Fissò Cruni. Non si sarebbe aspettato che il suo dipendente avesse dimostrata una tale intelligenza.

      «Le legga. Vedrà che le serviranno poco. Non significano nulla!»

      De Vincenzi aveva preso il foglio e leggeva:

       «No, non far questo! Pagherò!… Non sei tu che devi metterti in mezzo… Tanta pace, un po’ di solitudine… Me ne andrò, sì, me ne andrò…»

      Senza senso? Lo avrebbe veduto poi, a mente riposata. Ma fu quasi contento di quell’osservazione fattagli dal brigadiere, perché dimostrava che, ad ogni modo, l’intelligenza del suo sottoposto arrivava sino ad un certo punto. E lui, in quell’affare soprattutto, voleva contare soltanto su se stesso. L’aiuto degli altri non avrebbe potuto servire che a fuorviarlo. Doveva seguire il proprio istinto, la propria intuizione misteriosa, se voleva arrivare allo scopo. Ma a quale scopo? E non volle confessarsi in quel momento, che tutto il suo essere, quasi per una forma morbosa ed improvvisa di attaccamento a quel lontano compagno di collegio, lo spingeva a salvarlo ad ogni costo.

      Ogni tanto tornava col pensiero a quell’altro, lassù in soffitta. Non poteva dimenticare la fisionomia di quel ragazzo.

      Un volto interessante, indubbiamente. Anche quando aveva impallidito, anzi di più, allora.

      Ma perché quel pallore, al nome di Aurigi?

      Senza spiegarsene neppur lui la ragione, De Vincenzi fece il paragone fra quei due uomini. Due magnifici esemplari umani! Per quanto uno fosse quasi un ragazzo, ancora. Ma quanto maturo, quanto già consapevole della vita e del dolore. Questo qui era più uomo, seppure con una apparenza meno profonda abitualmente, meno appassionata, più superficiale.

      Sino allora aveva dovuto conoscere della vita soltanto il piacere, mentre l’altro sapeva già tutta l’amarezza delle rinunzie, dei sacrifici, della lotta.

      Poi era sopraggiunta la raffica e questo qui adesso appariva squassato, travolto…

      L’altro, però, aveva avuto un sobbalzo, così forte, da far tremare il tavolo…

      Guardò il dormiente.

      Si accorse d’avere ancora in mano il foglio datogli da Cruni e se lo mise nella tasca della giacca. Poi chiese:

      «È venuto il giudice?»

      «Sì, alle sette. Voleva parlarle. Gli ho detto che lei aveva vegliato fino alle quattro… Perché lei, dottore, è uscito da questa casa alle quattro e non alle cinque…»

      De Vincenzi lo guardò. Si