un’analisi minuziosa dell’interiorità che spegne ogni slancio poetico, Leopardi così commenta:
non si avvedono che appunto questo grand’ideale dei tempi nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti, quest’arte insomma psicologica, distrugge l’illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza d’animo e delle azioni. (Zib. 16sq.)
Dal punto di vista di Leopardi, l’«eccitamento del patetico» nel quale consiste «la somma arte del poeta» non può derivare né dall’osservazione minuta della realtà né dalla pratica artificiale dell’analyse interiore, praticata da «tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti», bensì, al contrario, dalla restituzione autonoma, attraverso le operazioni di una scrittura sublime, di quell’epifania sentimentale presa in considerazione anche dal Breme nel testo dello «Spettatore» da cui muove l’appunto dello Zibaldone: «la campana del luogo natio», «la vista d’una campagna», o «d’una torre diroccata» (Zib. 15). Allo scandaglio dell’anima, che produce gli eccessi artificiosi di Byron (autore, come osserva Leopardi in un altro luogo del suo giornale critico, di una poesia «caldissima» ma viziata da un eccessivo intellettualismo che la trasforma in «un trattato oscurissimo di psicologia» (Zib. 204), Leopardi oppone insomma la «profondità» indistinta e potente del sentimento, suscitato nei «cuori sensitivi» per mezzo «dell’impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura» (Zib. 15). Non so fino a che punto l’argomentazione filosofica dello Zibaldone, che a ben vedere si serve della grammatica medica del vitalismo, possa essere messa in rapporto, dal punto di vista stilistico, con il rifiuto della figuralità metaforica cara ai Romantici di cui ha parlato Mengaldo per l’esperimento poetico dei Canti;7 certo è che qualche pagina dopo, ritornando sull’argomento, Leopardi aggiunge una postilla significativa al discorso, sempre in direzione di un effetto sublime per così dire naturale, che non può più essere, per definizione, quello degli antichi:
Spesso ho notato negli scritti de’ moderni psicologi che in molti effetti e fenomeni del cuore ec. umano, nell’analizzarli che fanno e mostrarne le cagioni, si fermano molto più presto del fine a cui potrebbero arrivare, assegnandone certe ragioni particolari solamente, e questo perché vogliono farli parere maravigliosi, come il Saint-Pierre negli studi della natura lo Chateaubriand ec. E non vanno alla prima o quasi prima cagione che troverebbero semplice e in piena corrispondenza col resto del sistema di nostra natura. (Zib. 53)
A questo stadio della riflessione leopardiana, l’immaginazione è ancora «il primo fonte della felicità umana» (Zib. 168). Sebbene indebolita rispetto all’afflato potente degli antichi e dei fanciulli, che conservano vichianamente la spontaneità delle origini, essa è in grado di manifestarsi nel lievito di una poesia che recupera il rapporto immediato benché transitorio con la natura, in modi forse più vicini alla descrizione rousseauiana del sentiment de l’existence8 che ai piaceri dell’immaginazione di tradizione inglese. Del resto già Beccaria aveva mostrato a metà degli anni Sessanta come la formula vulgata di Addison potesse agevolmente convertirsi nell’operazione intensa della rêverie disincantata, sulla scorta dell’articolo Délicieux dell’Encyclopédie a firma di Diderot. Così I Piaceri dell’immaginazione, pubblicati nel 1765 nel foglio VII de Il Caffè, avevano delineato la figura epicurea del «beato contemplativo», lontano dagli artifici rituali del mondo e dal tumulto degli affetti.
Gli uomini corrono ansanti, si urtano, si sterminano tra di loro per rubbarsi scambievolmente i pochi fisici piaceri sparsi qua e là nel deserto dell’umana vita, ma i piaceri d’immaginazione si acquistano senza pericolo […]. Volgi gli occhi agli innumerabili ed immensi globi gettati dal Grand’Essere nell’immensità dello spazio, a quei torrenti di luce, a quello spirito di vita che circola nell’universo, e trovandoti or colosso, or atomo, ti riderai egualmente di chi sopra tutto e di chi nulla s’aprezza. Lascia gli uomini combattere, sperare e morire; […] riposa mollemente in quella illuminata indifferenza delle umane cose, che non ti tolga il piacere vivissimo di essere giusto e benefico, ma ti risparmia gl’inutili affanni e le tormentose vicende di bene e di male che sbalzano continuamente gli uomini inaveduti, cioè la maggior parte.9
Ascoltiamo allora, per antitesi, la riflessione di Leopardi datata 23 agosto 1821, dove risuona una consapevolezza storica e temporale del tutto diversa, che già prelude alla metafora notissima del mondo come «jardin des souffrances»:
Ma la natura, e le cose inanimate sono sempre le stesse. Non parlano all’uomo come prima; la scienza e l’esperienza coprono la loro voce: ma pur nella solitudine, in mezzo alle delizie della campagna, l’uomo stanco del mondo, dopo un certo tempo, può tornare in relazione con loro benché assai meno stretta e costante e sicura […]. Ecco un certo risorgimento dell’immaginazione, che nasce dal dimenticare che l’uomo fa le piccolezze della natura, conosciute da lui colla scienza; laddove le piccolezze e le malvagità degli uomini, cioè de’ suoi simili, non è quasi possibile che le dimentichi. Egli stesso assai mutato da quel di prima, e conosciuto da lui assai più intimamente di prima, egli stesso da cui non si può allontanare né separare, servirebbe a richiamargli l’idea della miseria, della vanità, della tristizia umana. (Zib. 1550sq.)
Dentro questa tonalità esistenziale, che ha preso le distanze anche storicamente dall’ottimismo dei Lumi, la considerazione dei rapporti fra il particolare e il generale, il determinato e l’indeterminato, dà origine nello Zibaldone a tutta una serie di osservazioni che introducono già la sintassi de L’infinito, tanto che questi appunti sparsi si presentano a tutti gli effetti come un autocommento al testo poetico, fino al pensiero riassuntivo del principio di agosto del ’21, che tuttavia non sembra tanto una conclusione del discorso, quanto un suo continuo rilancio entro la tematica più vasta del sublime, ripresa e approfondita nelle pagine che seguono in termini su cui dovremo tornare, per le analogie profonde con le estetiche psicofisiologiche del Tournant des Lumières, in primo luogo l’Enquiry in to the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful di Burke:
Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. Una fabbrica o una torre ec. Veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito […]. (Zib. 1430sq.)
In queste rapide annotazioni, l’epifania della natura, frutto delle operazioni dell’immaginazione e della memoria («gran parte delle immagini e delle sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei», Zib. 515) muove dall’idea di una privazione rispetto alla realtà dei sensi e in particolare della vista («il non veder tutto, e il poter perciò spaziare coll’immaginazione», Zib. 1745):
Alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. Attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come la chiamano. Al contrario la vastità e la molteplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la molteplicità delle sensazioni, confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere