di una campagna», o quando «è udito da lungi», e dunque «non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono» (Zib. 1929).
Rispetto a quella che a prima vista si presenta come una sostanziale adesione, se non proprio come una rilettura critica dell’estetica di Burke nello Zibaldone, anche in vista di un suo riuso in poesia, l’aspetto più controverso rimane tuttavia quello che riguarda il giudizio di Leopardi sulla definizione di sublime divulgata dall’Enquiry, ovvero il rapporto con la sfera psicologica del terrore, nella quale è implicita una totale soggezione, o annientamento delle facoltà dell’anima. Ricordo qui brevemente i due passi maggiormente commentati dai censori sette-ottocenteschi di Burke:
Qualunque cosa è atta in un certo modo ad esercitare idee di dolore e di pericolo, vale a dire ciò che è in qualche modo terribile, e riguarda oggetti terribili, o opera in maniera analoga al terrore, è la sorgente del Sublime; cioè è atta a produrre la più grande commozione, perchè sono persuaso che le idee del dolore siano più potenti di quelle che vengono dalla parte del piacere.38
La passione cagionata dal grande e dal sublime della natura, quando queste cagioni operano più potentemente, è lo stupore; che è quello stato dell’anima, in cui tutti i suoi movimenti sono sospesi, con qualche grado di orrore. In questo caso lo spirito è sì pienamente occupato del suo oggetto che non può ammetterne verun altro, né per conseguenza ragionare sopra quell’oggetto che tutto l’impiega. Quindi nasce il gran potere del sublime, che lungi dall’esser prodotto dai nostri raziocinj, gli anticipa, e ci trasporta con forza invincibile.39
Si tratta, come è noto, di affermazioni spesso contestate fin dal primo apparire dell’Enquiry e lungo tutto il Tournant des Lumières, per ragioni che riguardano in primo luogo l'orizzonte fisiologico dell’estetica di Burke:40 dopo il Kant della Kritik der Urteilskraft, anche in Italia teorici e critici meno noti e tuttavia influenti del primo Ottocento, come il Visconti dei Saggi sul Bello41, rifiutano le premesse materialistiche implicite nell’idea di delight, sulla scorta delle proposte meno radicali di Blair. Lo stesso Martignoni, su cui è giunto il momento di soffermarsi, non fa eccezione, e nella parte del suo trattato dedicato al Sublime annota al riguardo:
Non saprei tuttavia circonscrivere con Burke al solo terrore gli effetti di questo eccelso sentimento, comeché non di rado esso entri nelle impressioni, che di lui vengono risvegliate. Al che per avventura egli si indusse per avere osservato, che anche la meraviglia serba un cotal carattere grave ed austero, e con un non so qual turbamento ricerca l’anima nell’atto di sollevarla sopra se stessa, e ne abbia quindi per analogia confusi gli effetti con quelli del terrore.42
Significativamente, Martignoni si preoccupa di distinguere fra l’impressione del sublime, esercitata sui sensi, e la sua rielaborazione artistica attraverso l’immaginazione creativa, che opera attraverso il sentimento della meraviglia, la cui azione ha (cartesianamente) l’effetto di «elevar l’anima e di rinvigorirla contro l’impression del terrore»43. Il risultato è una sorta di rivisitazione moderna del topos lucreziano del Suave mari magnum, ovvero del sublime come prodotto di una distanza. L’esempio chiarificatore è quello pittorico di Vernet, già oggetto dell’attenzione profonda di un altro esegeta acuto di Burke, ma assai più attrezzato, il Diderot dei Salons. Contrapponendo il terrore reale dei marinai preda della burrasca al sublime convertito in arte del pittore di marine, Martignoni osserva, in maniera quasi perentoria:
Una burrasca, la qual non è, che un oggetto di spavento e di orrore pe’ naviganti, che agghiacciano all’aspetto dell’imminente loro naufragio, era un sublime spettacolo per Vernetto, che il terrore non ne apprendeva, o il pericolo, ma l’imponenza soltanto ne scorgeva, o la maestà di così eccelsa scena.44
Viceversa, in un altro luogo del testo, e precisamente nel passo sulle Privazioni che era piaciuto al Borsieri, Martignoni sembra per un attimo contemplare una forma di immaginazione senza limiti, frutto dell’esperienza radicale del sublime inteso come «solenne e sacro terrore»:
Convengo perciò volentieri col ricordato Burke nel ritenere che tutte le privazioni generali sieno grandi, come lo sono infatti il silenzio, il vuoto, la solitudine, le tenebre, ed anche più le idee di morte e di annientamento, siccome quelle, dalle quali l’anima rifugge sbigottita. E a dir vero cotali idee invadono gli animi di un solenne e sacro terrore, il qual tanto più diviene energico, quanto che da nessun limite è frenato l’entusiasmo della commossa fantasia, e lo spirito ripiegato in se stesso tutta dispiega la sua forza creatrice.45
Se dunque perfino la sintesi conciliante proposta dal Martignoni nel suo trattato, vera e propria summa dell’estetica settecentesca nella quale Burke occupa una posizione significativa ma non assoluta, finisce quasi per confermare suo malgrado l’influenza delle posizioni più radicali dell’Enquiry attraverso l’ossimoro dello «spirito ripiegato in se stesso» che «tutta dispiega la sua forza creatrice», tanto più viene da chiedersi quale sia al riguardo la posizione di Leopardi. In altre parole, il verso finale de L’infinito («E il naufragar m’è dolce in questo mare») si deve intendere come una traduzione poetica del delight nel senso psicofisiologico di Burke, o invece si può pensare che proprio la memoria, evocata fin dall’inizio attraverso la forte cesura del primo verso («Sempre caro mi fu quest’ermo colle») sia funzionale a introdurre nel testo una dimensione temporale successiva, nella quale l’attività libera dell’immaginazione ritorna sulle idee di morte limitando alla finzione della scrittura quello che Giuseppe Sertoli, attribuendo al sublime di Burke una moderna sfumatura freudiana, ha definito il brivido dell’annientamento46? Un appunto senza data dello Zibaldone, nel quale Leopardi commenta un brano della Corinne di Mme De Staël relativo alla mancata visita dei due protagonisti alle catacombe romane, sembra autorizzare questa seconda interpretazione:
L’ame est si mal à l’aise dans ce lieu (dice la Staël delle catacombe, liv. 5 ch. 2 de la Corinne), qu’il n’en peut résulter aucun bien pour elle. L’homme est une partie de la création, il faut qu’il trouve son harmonie morale dans l’ensemble de l’univers, dans l’ordre habituel de la destinée; et de certaines exceptions violentes et rédoutables peuvent étonner de la pensée, mais effraient tellement l’imagination, que la disposition habituelle de l’ame ne saurait y gagner. Queste parole sono una solenniss. condanna degli orrori e dell’eccesso terribile tanto caro ai romantici, dal quale l’immaginazione e il sentimento in vece d’essere scosso è oppresso e schiacciato, e non trova altro partito a prendere che la fuga, cioè chiuder gli occhi della fantasia e schivar quell’immagine che tu gli presenti. (Zib. 73sq.)
Alcune pagine dopo, nel pensiero datato 4 marzo 1821, Leopardi aggiunge una lunga chiosa sull’«eccesso di sensazione» che assume quasi il valore emblematico di una risposta implicita al sistema estetico dell’Enquiry, fondato come si è visto su di una sorta di rovesciamento dei principî del vitalismo:
L’eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella produce l’indolenza e l’inazione, anzi l’abito ancora dell’inattività negl’individui e ne’ popoli […]. Il poeta al colmo dell’entusiasmo della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All’aspetto dell’infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna; in somma non è capace di nulla, né di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria né di pratica. L’infinito si può esprimere solo quando non si sente: bensì dopo sentito. […] Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch’egli è sommo; ma la sua proprietà è di render l’uomo attonito, confondergli, sommergergli, oscurargli l’animo in guisa, ch’egli non conosce se stesso, né la passione che prova, né l’oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, né si può dire interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, né tutti interi, ma nel successo dello spazio e de’ momenti […]. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorché non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l’animo nostro non sia capace di contenerla tutta intera simultaneamente. (Zib. 714-716)
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