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poetica longiniana del sublime. Tuttavia si potrebbe osservare, da un altro punto di vista, che l’idea di una immaginazione dominante, frutto di associazioni rapsodiche, interiori e soggettive, appartiene di diritto anche alla tradizione più vitale del sensismo tardosettecentesco. In Rousseau, per esempio, le dinamiche interne della «rêverie solitaire», che prende forma grazie all’«asile caché» dell’Île de Saint-Pierre, raccontano l’immersione in una realtà interiore, in uno stato di effimera quanto perfetta plenitudine, estranea all’attività razionale della mente («sans prendre la peine de penser»11). Ciò che importa qui rilevare è che, come avverrà ne L’infinito, ma diversamente da quanto accade ne I piaceri de l’immaginazione di Beccaria, che pure presentano evidenti somiglianze con il passo di Rousseau per quanto riguarda la celebrazione di un «sentiment précieux de contentement et de paix»12, il momento del godimento sensoriale non esclude ma contempla quello successivo di una meditazione sulla temporalità che procede per via analogica. Il «flux et reflux des eaux» che immerge l’animo «dans une rêverie délicieuse» richiama il moto perenne dell’esistenza, soggetta alle leggi incessanti della materia. Un'impressione che si amplia fino a lambire la sfera psicologica:

      Tout est un flux et reflux continuel sur la terre. Rien n’y garde une forme constante et arrêtée, et nos affections qui s’attachent aux choses extérieures passent et changent nécessairement comme elles. Toujours en avant ou en arrière de nous, elles rappellent le passé qui n’est plus ou préviennent l’avenir qui souvent ne doit pas être […] et comment peut-on appeler bonheur un état fugitif qui nous laisse encore le cœur inquiet et vide, qui nous fait regretter quelque chose avant, ou désirer encore quelque chose après?13

      Il paragone con la meditazione di Rousseau serve a mettere in evidenza come la cornice filosofico-sensistica de L’infinito sia ancora per larga parte quella di matrice lockiana che permea la Cinquième promenade, nell’assunzione pervasiva della dinamica di repos e mouvement propria di ogni forza vitale. In Rousseau, come poi in Leopardi, l’attività dell’immaginazione rappresenta una sorta di forza intermedia fra la stasi del movimento, che prefigura la morte, e l’eccesso delle passioni, su cui si infrange la rêverie:

      Sans mouvement la vie n’est que léthargie. Si le mouvement est inégal ou trop fort, il réveille; en nous rappelant aux objets environnants, il détruit le charme de la rêverie et nous arrache d’au dedans de nous pour nous remettre à l’instant sous le joug de la fortune et des hommes et nous rendre au sentiment de nos malheurs. Un silence absolu porte à la tristesse. Il offre une image de mort. Alors le secours d’une imagination riante est nécessaire et se présente assez naturellement à ceux que le ciel en a gratifié. Le mouvement qui ne vient pas du dehors se fait alors au dedans de nous.14

      Nella costellazione dei testi settecenteschi dedicati al meccanismo sensibile della rêverie che opera per sottrazione o cancellazione della realtà esteriore si può ricordare forse a questo punto un altro precedente degno di figurare nella genealogia de L’infinito, anche in considerazione della sua natura intrinseca, legata alla ripresa della tematica gessneriana dell’idillio che interesserà poi, da un altro punto di vista, lo stesso Leopardi.15 Mi riferisco alle Lettere campestri di Aurelio De’ Giorgi Bertola, contemporanee alle Nuove poesie campestri e marittime presenti nella biblioteca leopardiana16 e grosso modo alla stesura delle Rêveries rousseauiane, che senz’altro contribuiscono a definire la natura tutta interiore dei piaceri dell’immaginazione nel Tournant des Lumières italiano. Nella lettera fittizia datata 23 settembre 1779, per esempio, Bertola offre la sua personale rivisitazione dei pleasures of imagination, risultato di un uso particolare dei due sensi primari, l’udito e la vista, che cooperano alla costruzione di una realtà alternativa a quella della «chiusa campagna» da cui muove la contemplazione:

      Seduto su questa pietra ho ancora de’ piaceri d’immaginazione novi in una chiusa campagna. Se freme gagliardamente il mare che bagna la costiera d’Amalfi, qui se ne sente lo strepito: pensando che se mi piacesse di far il cammino della montagna, che pure fan molti, singolarmente in cerca di erbe utili e rare, o a cacciagione (e dell’une e dell’altra la montagna è ricchissima) avrei d’improvviso l’aspetto del mare, e un altro tutto peregrino orizzonte, così pensando, io m’inebbrio di un piacer vivissimo, e lascio il freno alla mia fantasia; e di mezzo a’ boschetti di cedri, ond’è lieta la costa, parmi guardar la tempesta.17

      Quasi due anni dopo, nella lettera datata 20 febbraio 1781, troviamo un altro passo significativo, nel quale l’occhio, che questa volta si apre all’orizzonte «senza alcun ostacolo», introduce la figura dell’antitesi. Riletto insieme al precedente, il brano sembra quasi una sorta di anticipazione in prosa de L’infinito leopardiano: gli elementi ci sono tutti, manca solamente un respiro poetico più ampio, in grado di animare la forma ‹sentimentale› dell’idillio attraverso soluzioni retoriche e linguistiche sconosciute al Bertola, per il quale il contrasto fra il «gaio» e l’«orrido» non esce dalle sfumature del pittoresco:

      L’occhio misura di là la vicina altezza del Vesuvio, indi va tutto senza alcun ostacolo signoreggiando e Napoli e i colli e i monti, e il mare e le isole. Il tratto di verdura che dal poggetto frapponesi al mare, rende il color di questo anche più risentito; e il contrasto di un luogo gradatamente si vago e ridente coll’orrido della valle sottoposta è vivissimo. [… T]alvolta ancora il mover del vento piegando il fogliame ne va tratto tratto ampliando il quadro; e talvolta osa pure interromperlo piacevolmente.18

      Rispetto agli esempi fin qui ricordati, che pure testimoniano a modo loro la progressiva autonomia dell’immaginazione rispetto alla realtà esterna, grazie a una sorta di analisi della dinamica interna della sensibilità, è evidente come L’infinito muova proprio dal momento iniziale della privazione, che diviene anzi la condizione stessa della poesia. E nell’ambito frastagliato retorico delle estetiche tardosettecentesche, dove l’allusività e la reticenza vengono intese sempre più come necessarie allo sviluppo dell’immaginazione,19 l’idea di privazione non può non richiamare alla mente del lettore la prospettiva rivoluzionaria di Burke, ovvero un’idea psicofisiologica del sublime, alternativa alla tradizione classicistica divulgata da Boileau che nel corso del Settecento non cessa di esercitare la sua influenza, talora anche attraverso l’unione con le categorie di Addison. Per quanto riguarda in particolare l’Italia, il riferimento a Burke diviene poi quasi d’obbligo dopo la data canonica del 1804, quando le due traduzioni dell’Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful, apparse rispettivamente a Milano e a Macerata, impongono all’attenzione dei contemporanei su un testo che fino a quel momento aveva conosciuto una diffusione assai più limitata e meno riconoscibile, per lo più attraverso la mediazione francese.20 Non è dunque un caso se Giorgio Panizza, tornando sulla filigrana tematica de L’infinito, ha richiamato l’attenzione su di un passo della recensione al trattato di Ignazio Martignoni sopra il Bello e il Sublime (uno dei primi a confrontarsi in maniera diretta con l’Enquiry), pubblicata negli «Annali di scienze e lettere» nel 1810, dove l’autore, Pietro Borsieri, aveva commentato in piena sintonia con Martignoni:

      Non è perciò da negarsi al ricordato Burke che tutte le privazioni generali siano grandi: il silenzio, il vuoto, la solitudine, le tenebre, le idee di morte e di annientamento. Siffatte privazioni generali invadono l’anima di un solenne terrore, e col richiamarci dagli oggetti esterni ne dispongono a concepire i più sublimi pensieri ed affetti.21

      Prima di tornare con maggiore attenzione sulle conseguenze, nell’impianto teorico dello Zibaldone e di riflesso nel tessuto della lirica leopardiana, non solo del libro di Martignoni, ma di una possibile lettura di prima mano di Burke da parte di Leopardi, vale però la pena di ricordare che sull’idea di privazione si era soffermato a lungo, da una prospettiva retorica e stilistica, anche colui che è forse uno dei primi attenti lettori dell’Enquiry in Italia, vale a dire il Beccaria delle Ricerche intorno alla natura dello stile22. Rilevando l’influenza profonda delle idee che non vengono espresse ma «semplicemente suggerite o destate nell’animo di chi legge o di chi ascolta»23, Beccaria si era appellato, sulla scorta di Burke, ai principî stessi del vitalismo: «è legge della nostra sensibilità che tutt’altra forza abbiano le idee espresse e le tacciute»24. Probabilmente sulla scorta dell’Enquiry,