di uno stile allusivo che opera per sottrazione, attraverso la catena delle idee accessorie, le quali destano a loro volta sempre nuove associazioni attraverso il movimento interiore, soggettivo e potenzialmente infinito dell’immaginazione, sotto l’effetto del sublime e delle passioni da lui risvegliate. Da questo punto di vista, la conclusione delle Ricerche intorno alla natura dello stile si può intendere come una sorta di riscrittura delle pagine più note di Burke per ricavarne i lineamenti di una poetica moderna, in parte riconoscibile anche nella stratigrafia de L’infinito leopardiano:
Quanto più grandi e più forti saranno le idee accessorie espresse, tanto più numerose possono essere le idee tacciute, ma necessariamente destate da quelle, perchè l’efficacia delle prime tende e rinforza l’attenzione, che con più rapidi voli slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudicare l’interesse del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fermano l’immaginazione di chi legge od ascolta […]. Chi ben considera, e ritorna sull’esperienza dell’animo suo, potrà facilmente scorgere che, sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero e percuota l’immaginazione; questa, dopo considerato quell’oggetto, nell’atto che si riscuote e si risveglia dell’intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito all’ordinaria impressione delle cose che le stanno d’attorno, ma sebbene destasi in lei una moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressione che l’ha percossa, ma ancora alle passioni dalle quali è dominata.25
Che la riflessione di Beccaria fosse destinata a lasciare un segno, lo conferma del resto lo Zibaldone, dove Leopardi mostra di aver compreso l’importanza di un libro difficile e spesso frainteso dai contemporanei come le Ricerche intorno alla natura dello stile. All’interno di una serie di pensieri dedicati alla lingua e allo stile, troviamo un appunto rivelatore sulle risorse dell’analogia per mezzo delle idee accessorie: «Le parole, osserva il Beccaria (tratt. dello stile) non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie» (Zib. 109sq.). Qualche pagina prima, quasi sul modello esemplificativo del libro di Beccaria, affiora un’altra citazione complementare, che porta questa volta sul valore della reticenza. Leopardi trascrive il passo di un romanzo che per tanti versi rientra anch’esso nell’orbita del sublime moderno, tra Piranesi e Burke, ossia Le notti romane di Alessandro Verri: si tratta del brano «dove la Vestale dice che diede disperatamente del capo in una parete, e giacque» (Zib. 82), e l’autore dello Zibaldone, quasi sperimentando su se stesso l’effetto potente di quel vuoto grammaticale che agisce profondamente sull’immaginazione in termini fisiologici, chiosa:
la soppressione del verbo intermedio tra il battere il capo e il giacere, che è il cadere, produce un effetto sensibilissimo, facendo sentire al lettore tutta la violenza e come la scossa di quella caduta, per la mancanza di quel verbo, che par ti manchi sotto ai piedi, e che tu cada di piombo dalla prima idea nella seconda che non può esser collegata colla prima se non per quella di mezzo che ti manca. E queste sono le vere arti di dar virtù ed efficacia allo stile, e di far quasi provare quello che tu racconti. (Zib. 82, corsivo mio)
L’insistenza sull’effetto sensibile del sublime effetto di una mancanza ci riconduce dunque all’origine di questa fitta costellazione intertestuale, vale a dire al trattato di Burke, che come suggerisce il catalogo della biblioteca di Recanati Leopardi poteva aver conosciuto di prima mano, ovvero non solo attraverso la pur possibile mediazione della cultura italiana e francese, grazie alla traduzione di Carlo Ercolani pubblicata a Macerata nel 1804 dalla stamperia di Bartolomeo Capitani. Prima di quella data, che vede anche l’uscita in parallelo, a Milano, di una traduzione anonima dell’Enquiry dovuta al conte veronese Gian Giuseppe Marogna, sodale di Leopoldo Cicognara,26 per individuare la prima citazione esplicita (cursoria) dell’opera di Burke in ambito italiano si deve risalire alla Dissertazione intorno al sublime di Girolamo Prandi (1793), anche se richiami impliciti di qualche rilievo affiorano nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore di Pietro Verri (ben noto a Leopardi che lo utilizza nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez), e più decisamente nelle già ricordate Riflessioni intorno alla natura dello stile di Beccaria, per tacere della probabile influenza del trattato di Burke, forse attraverso Helvétius, sull’immaginario tragico alfieriano.27 All’inizio dell’Ottocento, viceversa, l’oramai ampia ricezione dell’Enquiry, con cui si misurerà anche la critica romantica attraverso i Saggi sul Bello di Ermes Visconti (la cui prima versione inedita risulta contemporanea a L’infinito), è comprovata anche dalla nuova edizione francese del 1803 presente nella biblioteca di Alessandro Manzoni, che reca postille autografe dello scrittore,28 a segno di una lettura che nel suo caso avviene ancora attraverso il filtro d’oltralpe, sulla quale potranno ritornare con qualche utilità i commenti ai Promessi sposi.29
Per provare a definire meglio la presenza di Burke in Leopardi bisogna dunque ripartire dal testo più vicino, vale a dire dalla traduzione dell’Ercolani, quest’ultimo autore anche autore di una versione delle Lectures on Rhetoric and Belles Lettres di Blair rimasta inedita perché completata a poca distanza dalla fortunatissima traduzione del Soave uscita nel 1803 e più volte ristampata. Rispetto alla versione di Burke messa a punto dal Marogna, il lavoro traduttorio dell’Ercolani appare piuttosto preciso e tutt’altro che superficiale, grazie soprattutto alle competenze linguistiche dell’autore, interprete fedele e acuto dell’originale.30 La prima osservazione interessante, dalla nostra prospettiva, si trova proprio nelle pagine iniziali e riguarda la ridefinizione del concetto di gusto. Svincolato sia dalle posizioni normative del classicismo che dal relativismo illuministico, il Gusto viene subito messo in relazione con l’effetto del sublime, in termini non molto diversi da quelli che abbiamo visto nel brano dello Zibaldone dove Leopardi dialogava con Di Breme. Per Burke, infatti, il gusto non è altro che «quella facoltà, o quelle facoltà dell’anima» per le quali «sono tocche e commosse dall’opere dell’immaginazione o delle belle arti»31, e qualche pagina dopo troviamo un corollario sul rapporto fra l’immaginazione e la sensibilità che potrebbe figurare a buon diritto nello Zibaldone fra commenti d’autore a L’infinito: «l’immaginazione è la provincia più estesa del piacere e del dolore, siccome essa è la regione de’ nostri timori e delle nostre speranze, e di tutte le nostre passioni»32.
Di là da questa generale tonalità di fondo, immediatamente riconoscibile, sono molti i riscontri fra la versione italiana dell’Enquiry e le pagine dello Zibaldone su cui si potrebbe discutere, a cominciare dalle «idee dell’eternità e dell’infinito», secondo Burke «le più commoventi idee che noi abbiamo»33, dall'insistenza sull’indeterminato proprio della poesia, risultato di «grandi e confuse immagini», che induce il richiamo inevitabile – sopratutto per un lettore del Settecento abituato a confrontarsi con Shakespeare e con Milton, esempi per eccellenza di un sublime letterario anticlassicistico – del primo canto del Paradise Lost:
Qui si vede una pittura nobilissima; e in che consiste questa poetica pittura? Nell’immagini d’una torre, di un arcangelo, del sole nascente in mezzo alla nebbia, in un’eclisse, nella rovina de’ monarchi, e nelle rivoluzioni de’ regni. L’animo è trasportato fuori di se da una folla di grandi e confuse immagini, che lo sorprendono appunto perché sono affollate e confuse. Poiché separatele, e perderete molto della grandezza; riunitele, e perderete la chiarezza. Le immagini risvegliate dalla poesia sono sempre di questo genere oscuro […] difficilmente alcuna cosa può far colpo sul nostro spirito con la sua grandezza, se non si approssima in qualche modo all’infinito.34
Un altro luogo degno di essere preso in considerazione per i suoi sviluppi in un’ottica leopardiana è poi quello sopra le cosiddette Privazioni che aveva già attratto l’interesse di Beccaria, di Martignoni e di Borsieri,35 e che prevedibilmente lascia più di un segno negli appunti sparsi del 1821, insieme alla riflessione complementare sul potere dei suoni.36 Nel capitolo XIX del libro, intitolato al Repentino, Burke si sofferma a lungo sulle risonanze interiori di ciò che definisce «un subitaneo principio, o un’improvvisa cessazione di suono», come «i rintocchi di una gran campana, quando il silenzio della notte impedisce l’attenzione dall’esser troppo dissipata»37. All’esempio, di per sé abbastanza significativo per la sua